La Dignità dell’Uomo – “De hominis dignitate”

6cc92509f4697d4cb278a6dd07f03a3f.jpg

L’epistola De hominis dignitate è il “manifesto” del pensiero di Pico e sintetizza gli esiti di ricerche da lui portate avanti per alcuni decenni. Quest’opera risulta estremamente interessante e stimolante in direzione della riscoperta di una concezione della filosofia non come fatto eruditivo o dialettico ma nel senso originario di amore e ricerca della saggezza.

La breve ed intensa vita di Giovanni Pico (1463-1493) racchiude in sé il fervore e l’inquietudine di un’età storica ricca di eventi e di mutamenti.

 

Nel De hominis dignitate Pico, come altri umanisti del ‘400, esalta l’uomo e la sua capacità. La vita della natura è considerata come una correlazione misteriosa di forze interagenti, controllabili dall’uomo (di qui l’interesse per magia, astrologia, mantica e mistica dei numeri – come in Reuchlin). La natura resta però inferiore all’uomo, che coincide con l’essere, in quanto non è “contemplatore” ma “creatore”. La natura è determinata dalla categoria della necessità, l’uomo invece da quella della libertà, in virtù della quale può scegliere il suo destino. La dignità dell’uomo non è data una volta per tutte (a un grado determinato della gerarchia del reale, come voleva la teologia). È l’uomo che dà un senso alla natura, che dà alla creazione unità e rispondenza al fine, essendo un legame che tiene unito il tutto in un sol punto.

 

Scelta di brani dal De dignitate hominis

1. Creazione dell’uomo

Già il sommo Padre, già l’architetto divino aveva costruito, con le leggi della sua arcana sapienza, questa dimora terrena, questo tempio augustissimo della divinità, che è il nostro mondo. Già aveva posto gli spiriti ad ornamento della regione superna; già aveva seminato di anime immortali i globi eterei e riempito di ogni genere di animali le impure e lercie parti del mondo inferiore. Ma compiuta la sua opera, l’artefice divino vide che mancava qualcuno che considerasse il significato di così tanto lavoro, ne amasse la bellezza, ne ammirasse la grandezza. Avendo, quindi, terminata la sua opera, pensò da ultimo – come attestano Mosè e Timeo- di produrre l’uomo. […] Ormai tutto era pieno, tutto era stato occupato negli ordini più alti, nei medii e negl’infimi. […] Stabilì, dunque, il sommo Artefice, dato che non poteva dargli nulla in proprio, che avesse in comune ciò che era stato dato in particolare ai singoli. Prese pertanto l’uomo, fattura priva di un’immagine precisa e, postolo in mezzo al mondo, così parlò: «Adamo, non ti diedi una stabile dimora, né un’immagine propria, né alcuna peculiare prerogativa, perché tu devi avere e possedere secondo il tuo voto e la tua volontà quella dimora, quell’immagine, quella prerogativa che avrai scelto da te stesso. Una volta definita la natura alle restanti cose, sarà pure contenuta entro prescritte leggi. Ma tu senz’essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell’arbitrio che ho posto nelle tue mani. Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo. Non ti ho fatto del tutto né celeste né terreno, né mortale, né immortale perché tu possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore. Potrai degenerare sino alle cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature superne, alle divine.»

O somma liberalità di Dio Padre, somma e ammirabile felicità dell’uomo! Al quale è dato di poter avere ciò che desidera, ed essere ciò che vuole. I bruti nascendo, assorbono dal seno materno ciò che possederanno. Gli spiriti superiori furono invece, sin dall’origine, o poco di poi, ciò che saranno eternamente. Il Padre infuse all’uomo, sin dalla nascita, ogni specie di semi e ogni germe di vita. Quali di questi saranno da lui coltivati cresceranno e daranno i loro frutti: se i vegetali, sarà come pianta, se i sensuali, diventerà simile a un bruto, se i razionali, da animale si trasformerà in celeste; se gl’intellettuali, diverrà angelo e figlio di Dio. E se di nessuna creatura rimarrà pago, rientrerà nel centro della sua unità, e lo spirito, fatto uno con Dio, verrà assunto nell’umbratile solitudine del Padre che s’aderge sempre al di sopra di ogni cosa.
Chi ammira questo nostro camaleonte, o, anzi chi altri può ammirare di più?

2. Riconoscere gli uomini

Non è la corteccia che fa la pianta, ma una natura ottusa e insensibile, né la pelle che fa l’animale, ma un’anima bruta e sensuale, né la sfericità che fa il cielo, ma il suo mirabile ordine, né è la privazione del corpo che fa l’angelo, ma il suo intelletto spirituale.

Se vedrai un uomo dedito al ventre, quasi essere che serpe al suolo, è un frutice che vedi, non un uomo; se vedrai uno reso cieco dalle vane malie della fantasia e lusingato e soggetto alle blandizie dei sensi, è un bruto, non un uomo quello che vedi. Se vedrai un tale che è capace di discernere ogni cosa, secondo la retta ragione dei filosofi, onoralo: è questa una creatura celeste, non terrena. Se vedrai uno spirito contemplativo, tutto chiuso nei penetrali del pensiero, quasi assente dal corpo, costui non è creatura terrena, non è creatura celeste, ma è ben di più, è Dio vestito di umana carne.

3. Chi è il padrone del nostro destino?

Ma a che proposito queste cose? Per comprendere che siamo nati a questa condizione, che noi saremo ciò che vogliamo essere. […] Una sacra ambizione ci riempie l’animo, perché, insoddisfatti delle mediocri, aneliamo alle cose superne e ci sforziamo di conseguirle -lo potremo se lo vorremo- con tutte le nostre forze. Sdegnamo le cose terrene, aspiriamo alle celesti e, volgendo le spalle a tutto ciò che è di questo mondo, innalziamo al vestibolo della celeste dimora, ove abita l’eccelsa divinità.

4. La scala della saggezza

Anche noi dunque, emulando in terra la vita cherubica, contenendo per opera della scienza morale l’impeto delle passioni, dissipando con la dialettica la caligine che ottenebrava la nostra ragione quasi lavandoci dalle impurità dell’ignoranza e dei vizi, purificheremo l’anima acciocché né le passioni infurino all’impazzata, né la ragione abbia talvolta a deviare con imprudenza. Inondiamo poi col lume della filosofia naturale l’anima ben ordinata e purificata, acciocché possiamo, da ultimo, perfezionarla con la cognizione delle cose divine.

5. La via alla pace e alla vita

Quando in noi vi è molteplicità, allora abbiamo la discordia, che produce lotte più gravi che le guerre civili e se a queste vorremo sfuggire, se aspireremo a quella pace, che ci sospinge così in alto da collocarci fra le creature più eccelse del Signore, soltanto la filosofia potrà reprimere e sedare addirittura queste discordie. Che se l’uomo avrà ottenuto tregua da questi suoi nemici interni, la filosofia morale, anzitutto, reprimerà e rintuzzerà le sfrenate rivolte di tanti nostri appetiti carnali e gli assalti leonini del nostro animo iroso. Provvedendo meglio alla nostra salute avremo conseguito la sicurezza della vera pace, la quale verrà in soccorso e liberamente adempierà tutti i nostri voti.

Poiché l’uccisione di queste due fiere sarà per così dire il sacrificio della scrofa onde sarà sancito l’inviolabile patto di una santa pace fra lo spirito e la carne.

La dialettica della ragione ammansirà i contrastanti dibattiti delle orazioni e gl’inganni animosamente tumultuanti nel sillogismo. La filosofia naturale rappacificherà le liti e i dissidi dell’opinione che opprimono, distraggono e dilacerano qua e là l’anima inquieta. Ma la calmerà in modo da costringerci a ricordare che la natura è nata, come dice Eraclito, dalla guerra, e perciò è detta da Omero contesa. Tuttavia non può essere in sua facoltà di presentarci una vera quiete e una solida pace, essendo questo dono e privilegio della santa teologia. Solo questa c’indicherà la via alla pace e ci sarà di guida, come quella che, vedendoci affaticati e ancora lantani, esclamerà: «Venite a me voi tutti che vi affaticate, venite e io vi rifocillerò; venite a me e vi darò la pace che mai vi potranno dare il mondo e la natura». Chiamati così soavemente, invitati così benignamente, colle ali ai piedi, quasi Mercuri terrestri, volando all’amplesso della beatissima madre, fruiremo della sospirata pace, pace santissima, indivisibile congiungimento, unanime amicizia, per cui non solo tutte le anime concordano ora in quell’unica mente, che è sopra ogni mente, ma si trasformano in modo ineffabile e interamente nell’uno-tutto.
Questa è quell’amicizia che i Pitagorici dicono sia il fine di ogni filosofia.
Questa è quella pace che Dio dà ai beati nel cielo, che gli angeli, scendendo in terra, annunciarono agli uomini di buona volontà, affinché questi ultimi, ascendendo al cielo, diventino angeli.

Questa pace desidereremo agli amici, questa pace al nostro secolo e a ciascuna casa in cui entreremo; questa pace augureremo all’anima nostra, acciocché si faccia per essa la stessa casa di Dio, acciocché discenda il re della gloria, dopo che, per mezzo della morale e della dialettica, si sarà liberata da ogni sozzura e si sarà adornata di ogni filosofico sapere, coronando di serti teologici la somma delle porte.
Allora il re della gloria, venendo insieme col Padre, porrà la sua dimora presso l’anima. Se si mostrerà degna di tanto ospite, la cui misericordia è immensa, vestita di aurei paludamenti, quasi di vesti nuziali, fornita della molteplice varietà delle scienze, riceverà il bellissimo viandante, non già come un ospite, ma come uno sposo. Per non essere mai più staccata da lui, desidererà essere sciolta dai legami col popolo suo e, dimentica ormai della casa del padre, anzi obliata di se stessa, bramerà morire a sé, per poter vivere nello sposo, al cui cospetto è certo preziosa la morte dei suoi santi, se può dirsi morte la pienezza della vita, la meditazione della quale i sapienti dissero essere il fine ultimo della filosofia.

6. I misteri delle antiche religioni

Del resto l’onore e la dignità delle arti liberali non solo ci vengono mostrati dai misteri mosaici o cristiani, ma anche dalla teologia dei popoli primitivi.

Quale altro significato possono avere, infatti, i gradi osservati dagli iniziati negli arcani dei Greci? I quali erano ammessi ai misteri dopo che si erano prima purificati per mezzo di quelle arti, che si potrebbero chiamare scienze purificatrici, la morale e la dialettica. Ora, quest’ammissione ai misteri che altro può significare se non l’interpretazione filosofica dei segreti più profondi della natura? Quando poi gli iniziati erano preparati succedeva quell’Apopteía, vale a dire quella visione delle cose divine che si ottiene per mezzo del lume della teologia. Chi non desidera d’essere iniziato in tali misteri? Chi, tralasciando tutte le cose umane, disprezzando i beni della fortuna, trascurando quelli del corpo, chi, mentre si trova ancora su questa terra non desidera di essere accolto commensale degli dei? Chi non desidera, mentre è ancora una creatura mortale, d’essere fatto degno del dono dell’immortalità, di dissetarsi di quel nettare che ci rende immortali? Chi non vorrà essere così ispirato da quel socratico furore, tanto esaltato da Platone nel Fedro, da poter fuggire velocissimamente con le ali ai piedi da questo nostro mondo, che è fondato sul male per affrettarsi con rapido corso alla Gerusalemme celeste?

7. I precetti delfici

Ma ricordate i tre precetti di Delfi, molto necessari a coloro i quali stanno per entrare nel santissimo ed augustissimo tempio, non del finto ma del vero Apollo, il quale illumina ogni anima che viene in questo mondo; vedrete che essi nient’altro ci ammoniranno che di abbracciare con tutte le nostre forze questa tripartita filosofia, della quale attualmente si discute. Il detto poi medén agan (nulla di troppo) cioè la corda troppo tesa si spezza, prescrive la regola e la norma di tutte le virtù mediante il giusto mezzo, di cui tratta rettamente la morale. Quindi il famoso gnothis autón, conosci te stesso, ci stimola ed esorta alla cognizione di tutta la natura, della quale l’umana è termine medio e quasi miscela. Chi infine conosce se stesso, conosce in se stesso ogni cosa, come scrissero prima Zoroastro quindi Platone nell’Alcibiade. Illuminati, infine in questa cognizione per mezzo della filosofia naturale, ormai vicini a Dio e dicendo êi, cioè sei, col saluto teologico, chiameremo il vero Apollo in tono familiare e pieno di letizia.

 

La Dignità dell’Uomo – “De hominis dignitate”ultima modifica: 2008-03-26T15:10:00+01:00da percorsisicilia
Reposta per primo quest’articolo